Comunicato 21/08/2023
Si è conclusa da poco la stagione dei Pride del 2023, che anche quest’anno si è imposta all’attenzione pubblica e ha portato nelle strade un’onda potente di resistenza alla violenza di Stato e alle politiche reazionarie di questo governo. La potenza di questa onda è ormai riconosciuta, sia da chi a sinistra la cavalca come bacino di consenso e strategia di pressione, sia da chi da destra la osteggia e ne fa un pretesto per ribadire un’esclusione formale e sostanziale delle questioni di genere e sessualità dalla sfera pubblica.
Dal riconoscimento deriva un potere politico che il movimento LGBTQIA+ (soprattutto le organizzazioni che attraverso quel riconoscimento si sono fatte istituzione e punto di riferimento) non può ignorare e non può gestire come fatto meramente rituale, costruendo una piattaforma neutrale in cui accogliere e celebrare quel potere o in alternativa uno spazio radicale di pura espressione di dissenso e di opposizione, avulso dai contesti in cui quel potere lo si esercita. La rilevanza politica dei Pride si assottiglia pericolosamente sia nell’uno che nell’altro caso.
In questa stagione, si sono confrontate visioni contrapposte di lotta, con una nettezza che non è nuova alla politica queer ma è sicuramente un dato da registrare. Il confronto ha assunto in alcuni casi connotati violenti, rischiando di fagocitare i messaggi politici portati in piazza in un conflitto interno che depotenzia e schiaccia la nostra capacità di presa di parola. Lo definiamo conflitto interno, consapevoli che anche questo è un posizionamento, perché questo conflitto non sarebbe tale, non nelle forme in cui si è espresso quest’anno, se a parti inverse non si considerasse una certa visione di lotta come altra, come esterna al movimento: assimilata dall’istituzione, dalla politica partitica e dal capitale da un lato, figlia di tradizioni politiche non queer e fautrice di pratiche rivoluzionarie e quindi violente dall’altro.
Prendere atto del fatto che questa differenza esiste e decidere di affrontarla non significa scegliere di cancellare la propria identità, ma piuttosto andare oltre un approccio puramente identitario e lavorare per costruire una presenza di piazza, in una manifestazione che coinvolge decine di migliaia di persone, che sia safer per tutt* e capace di farsi portatrice di tutte le istanze.
Pensare, invece, che questo conflitto sia semplicemente destinato a esistere e che tutto ciò che si possa fare – sia tentare da un lato di invisibilizzarlo, di lasciarlo fuori, dall’altro di farne il punto di caduta della propria identità politica – è un approccio che comincia a mostrare evidenti limiti. Ce lo dimostra lo scontro che c’è stato il 6 agosto, alla partenza del corteo, tra il comitato organizzatore del Rimini Pride e la spezzona Pride Off, mentre al London Pride l* attivist* di Just Stop Oil bloccano il carro della Coca Cola per protestare contro la produzione inquinante delle grandi corporations, mentre a Firenze la postura critica di una parte delle frange antagoniste si presta a essere interpretata come una minaccia alla pubblica sicurezza, scatenando l’intervento delle forze dell’ordine. Non possiamo illuderci di essere di fronte a un fenomeno marginale e marginalizzabile, ma dobbiamo farci carico delle contraddizioni complesse dei modelli che ci siamo dati.
In uno scenario politico nazionale di crisi e di arretramento sul piano dei diritti civili e sociali, di fronte a una classe politica che tenta di governare la crisi imponendo un modello economico di merito e sacrificio e un modello culturale monolitico, familista, bianco e ferocemente patriarcale, la nostra responsabilità politica è quella di trovare le strade, per quanto complesse, del dialogo e dell’alleanza, della cura e del riconoscimento, della sintesi e non della divergenza. Non in ottica di annullamento delle differenze, di appiattimento delle istanze e pacificazione del conflitto, ma ma per potenziare strategicamente la nostra azione di resistenza e di contrattacco.
A ottobre il governo approverà il ddl Varchi, istituendo di fatto il reato universale di omogenitorialità e criminalizzando un modello di relazione e di cura. Lo stesso governo che ha stracciato il reddito di cittadinanza, distruggendo i progetti di fuoriuscita dalla povertà di molte persone marginalizzate, che ha approvato il ddl Cutro per respingere le migrazioni e ha promosso gli accordi con il dittatore tunisino Kais Sayed. Un governo che, soggiogato dalla guida culturale di una ong oscurantista come ProVita e Famiglia, promette di attaccare le carriere alias e quindi la possibilità per le persone trans di esistere socialmente. Un governo impegnato in crociate omolesbobitransfobiche che, i dati lo dimostrano, vanno anche oltre rispetto alle convinzioni della propria base elettorale, e seguono una strategia internazionale molto precisa e molto visibile, che denunciamo da anni.
Siamo in un momento politico senza precedenti, nel quale come associazione e come istituzione, consapevoli tanto dei nostri limiti quanto del nostro potere, non abbiamo risposte pronte ma scegliamo di mettere il nostro impegno nella ricerca e nella costruzione di spazi di dialogo e di confronto, sempre in divenire e sempre esposti alla possibilità del fallimento. Nell’autunno caldo che ci aspetta, verso l’anniversario del primo anno di governo Meloni, sentiamo l’urgenza di contribuire alla costruzione di una voce comune che sia forte e incisiva, che vada al di là delle spaccature, rendendole anzi spazi fertili di confronto e di ripensamento dell’assetto esistente.
In quest’ottica annunciamo che quest’anno ci impegneremo ad aprire spazi di scambio sul tema del Pride anche all’interno della nostra associazione e in comunicazione con altre realtà, mettendo a disposizione il privilegio delle relazioni che il Cassero ha potuto costruire in questi anni e le risorse di spazi fisici e politici che lungi dall’appartenerci sono e restano della comunità.