La voce di: Marco Giusta

La risposta alla nostra lettera aperta sull’assemblea del 29 Marzo al Mario Mieli di Roma

Il posizionamento del Cassero ci ricorda che esiste un mondo, là fuori, molto più vasto e articolato e che forse ha meno bisogno di rappresentanza in questo momento, ma di partecipazione. Un muscolo non molto allenato, in un sistema che tenta di atrofizzarlo, che ha bisogno di essere riscaldato, mosso lentamente, messo nelle migliori condizioni per esprimersi.

Oltre alla situazione contingente, negli spazi che si riempiono di contenuti e modelli, seppur nelle fondanti differenze ( la strada dei diritti e stati genderali, entrambi citati nel post,non sono sovrapponibili: il primo raggruppa realtà del mondo Lgbtqia+ e ne rivendica i diritti, con un metodo di assimilazione, il secondo, più ampio nella partecipazione, assumeva il punto di vista queer sulle ‘cose del mondo’ e parlava anche di altro, lavoro, neurodivergenze, modelli familiari etc ), credo che il nostro primo obiettivo sia provare a risvegliare le coscienze politiche delle nostre comunità. E pensarsi non più come singole marginalità oppresse, ma soggettività ampie, piene di contraddizioni e moltitudini, portatrici di oppressioni e parte del sistema oppressivo allo stesso tempo.

Insomma, scendere dal piedistallo del ‘voglio i miei diritti’ e salire sul barcone che ci costringe a stare assieme per passare il mare.

In una situazione sempre più, se non individualista, sicuramente identitaria e pulviscolare, l’intersezione delle lotte e dei momenti collettivi diventa un obbligo. Se non vogliamo morale, almeno utilitaristico: ogni persona scende in piazza per le proprie lotte, difficilmente per quelle delle altrə. E quindi comprendere percorsi più ampi significa intercettare le istanze che muovono masse sempre più settoriali.

Anche il nostro movimento Lgbtqia+ dovrebbe iniziare a ragionarci sopra, seppur sembra spesso che si vada in altre direzioni. Ma per arrivare a questo servono tempi lunghi, serve sapere attraversare gli spazi e acquisirne i linguaggi, comprendere e condividere pratiche o quanti meno non sentirle distanti, apprendere come l’oppressione si manifesta in altre storie e come i cammini di liberazione siano diversi ma tutti, per le persone che li vivono, ugualmente importanti.

Il percorso diventa quindi più importante dell’arrivo, di una manifestazione, di un evento o altro. È quel percorso la fucina di nuovi attivismi intersezionali che oltre al se scelgono di prendersi cura di altro. Di farlo assieme, non come singole meteore, o parte di élite di coloro che vivono l’oppressione, a cui il potere offre il posto di una variabile prevista.

Vogliamo tutto, a partire dal nostro desiderio: ma il nostro orizzonte è limitato: non riusciamo a scorgere più in là di una feritoia che ogni giorno diventa più stretta. Per questo credo abbiamo bisogno di uno spazio dove possiamo respirare, immaginare una realtà completamente diversa fuori dalle logiche delle attuali normative o consuetudini. Una società in cui decreti, flussi, divieti non esistano, o meglio siano smantellati, in cui il linguaggio dominante sia quello della cura e della gratuità piuttosto che dello scontro.

Forse, più che uno spazio dove convocare l’ennesima manifestazione, spesso mortifera di molti percorsi (vedi SG), abbiamo bisogno di uno spazio dove aprire il confronto e provare a immaginare quel cielo che ci è negato. Non da sole, ma assieme. Come diceva Marti Bas “la nostra, è appartenenza, a una lotta di lotte, risonanza di lotte in altre lotte, diverse e uguali”.